Il virus ed io

Enrico Martini

Una breve premessa, poi il racconto di due recenti esperienze e alcune domande.

Nato nel 1940, ho avuto tutte le malattie “dei bambini” allora note. Ritengo che questi morbi, dovuti sia a virus (morbillo, varicella, rosolia, parotite), a DNA come pure a RNA, sia a batteri (pertosse, scarlattina), abbiano favorito la genesi di una difesa immunitaria, sotto forma di linfociti B e T killer, di tutto rispetto.

Nel 1957 arrivò in Italia un’epidemia dovuta ad un coronavirus, la cosiddetta “asiatica”, che mise a letto un quinto della popolazione mondiale, provocando la morte di circa 2 milioni di persone. Si ammalarono mio padre, mia madre, mia sorella: febbre a 40°, poi lenta discesa fino allo sfebbramento. Per una settimana curai tutti e tre, imbottendomi di virus ma senza accusare il minimo sintomo! Nei decenni successivi, quando buona parte degli italiani si metteva a letto con la febbre, ebbi a volte le avvisaglie dell’influenza (brividi, febbre, dolori in tutto il corpo) ma, salvo in un caso, fine anni ’70, me la cavai sempre in una o due ore, continuando a lavorare. Quell’unica volta in cui vinse il virus, rimasi febbricitante un giorno ma riuscii a scandalizzare mia suocera cui rifiutai una tazza di brodo pretendendo di mangiare ravioli col sugo, cotoletta alla milanese e patate fritte come lei, moglie e figlio. Sono convinto che i linfociti B e T killer abbiano svolto un ottimo lavoro!

Veniamo a giovedì 19 marzo di quest’anno. Mi sveglio e sto male: capogiri, la testa sembrava scoppiare, come se un’immensa bolla d’aria compressa mi stia schiacciando il cervello contro l’interno della volta cranica, collo indurito e sensazione di averlo gonfio, gola incredibilmente secca, impossibilità di fare un’inspirazione profonda (solo piccolissimi ansimi affrettati), brividi e dolori forti, articolari e muscolari. Penso: “Ho il virus”. Stringo i denti: lavatomi, accudita mia moglie (purtroppo disabile, dopo un tragico incidente con 5 morti e 43 feriti), fatta colazione, esco diretto al supermercato (distante 9 chilometri) per fare incetta di cibi pronti e a lunga conservazione da lasciare a lei, totalmente ignara di quanto sta avvenendo.

Lungo la strada guido come un automa: la testa mi scoppia, non riconosco i luoghi, non capisco a che distanza sono dal supermercato; per fortuna identifico la rotonda e la deviazione sulla destra, da prendere, ormai prossimi all’arrivo. Parcheggio ed entro nel grande edificio con negozi e, in fondo, il supermercato; è presto, siamo pochi, sono l’ultimo della coda: siamo distanziati da 5 a 7 metri uno dall’altro, tanto c’è molto spazio; mi adeguo, così non contagio alcuno, d’altronde non sternuto né tossisco. Penso: “Speriamo di riuscire a rimanere in piedi per tutto il tempo necessario”. Passa un quarto d’ora; resto attonito: in un paio di minuti tutti i sintomi scompaiono: testa perfettamente sgombra, più nessun dolore o brivido, collo e gola normali. Incredulo, tento un respiro profondo: nessuna difficoltà; inebriato ne effettuo di seguito una mezza dozzina: nessun problema! Faccio la spesa e torno a casa, molto su di giri.

Venerdì 20 marzo: una certa spossatezza e, in tre momenti, mal di gola ed anche mali di testa (in zona prima occipitale, poi una parietale poi l’altra); durata: più o meno 5 minuti; intervallo di un’ora circa tra un episodio e l’altro. L’impressione è che i virioni superstiti stiano cercando un posticino tranquillo in cui replicarsi in santa pace, vengano inseguiti e raggiunti dai linfociti T killer e annientati. A tarda sera dolori allo stomaco e nausea (curata con parmigiano reggiano). Sabato 21: prima un minimo di spossatezza, poi più nulla.

Non poteva trattarsi di una qualche forma di allergia: i pollini che tuttora mi tormentano, ottantenne, il 19 marzo erano ancora di là da venire. Per me ho avuto il virus.

Parlo dell’accaduto con due amici medici, uno di Genova, l’altro di Imperia. Il primo mi dice: “Molto strano. Stai attento perché, se hai avuto il virus, ora sei immune ma puoi contagiare tua moglie”. Per un mese pranzo a parte e dormo in un’altra stanza, evitando ogni contatto stretto e lavandola, asciugandola e aiutandola a vestirsi stando in apnea.

7 maggio: mia moglie riceve la visita di un’amica; mascherine, guanti, tutto secondo le regole. La sera le dico: “Che strano. Ho, ma molto più lieve, la stessa sensazione di un mese e mezzo fa: testa gonfia e collo indurito; nessun altro sintomo; in particolare il respiro è rimasto normale”. Mia moglie mi dice: “Ma sai che il papà della mia amica è stato in terapia intensiva ed è tornato a casa da pochissimo?”. Chiedo: “E i familiari?”. “Sono rimasti in quarantena la moglie e il figlio”. “E la tua amica?”. “No, lei abita nel Comune vicino”. Io: “Cosa importa? In primo luogo tra le due residenze c’è appena un paio di chilometri e poi, nelle due settimane che hanno preceduto il ricovero del padre, tutti i familiari, lei compresa, si sono frequentati”. “Non so cosa dirti. Lei mi ha detto che ha avuto la febbre per un giorno, dopo è toccato al fratello, quindi alla madre, infine si è sentito male il padre e, dopo quasi una settimana, lui è finito in terapia intensiva”.

Per me questa amica è ora una portatrice asintomatica e mi è arrivata una spruzzatina di virus quando ho preparato una tisana per le signore e ho fatto merenda con loro. Su mia moglie conseguenze zero: forse i due mesi di vita in comune le hanno fatto assorbire dosi di virus infinitesime ma sufficienti a farle elaborare anticorpi.

Telefono alla dottoressa di base, spiego e dico che voglio misurarmi le immunoglobuline M (quelle che insorgono quando avviene il contatto con il virus) e G (le successive), queste ultime anticorpi più o meno permanenti. Le dico: “Se il mio plasma contiene le IGG, lo voglio mettere a disposizione di qualche malato grave; in fin dei conti sono ben rodato: ho fatto 180 di donazioni di sangue, plasma e piastrine” (quasi tutte all’ospedale Gaslini, di Genova, quello dei bambini). Niente da fare: l’esame di IGM e IGG viene fatto solo a pazienti usciti dalla terapia intensiva. Un’occasione perduta! Cerco di consolarmi: non mi avrebbero accettato: “Troppo vecchio”. Però resto con l’amaro in bocca.

Non contento, mi rivolgo ad un laboratorio di analisi privato, nel Comune di Quinto di Treviso: 35 euro. Risultato: assenza totale di immunoglobuline IGM e IGG.

Per me possibili solo due ipotesi:

1) Non ho avuto alcun contatto con il virus. Qualcuno, però, mi deve spiegare perché ho avuto, per la prima ed unica volta nella mia vita, il 19 marzo scorso, i sintomi che ho descritto, decisamente angoscianti, per me totalmente nuovi. E soprattutto alcuni dei medesimi, molto attenuati, la sera del 7 maggio, dopo che, nel pomeriggio, avevamo ricevuto la visita dell’amica, probabile portatrice asintomatica.

2) Ho avuto il virus ma i miei linfociti T killer lo hanno annientato in un tempo brevissimo, evitando anche di generare quell’essudato, eccesso di difesa, che, riempiendo gli alveoli polmonari, può diventare il primo sabotatore della respirazione di un colpito da Covid-19. Le tre brevissime ricadute del 20 marzo si configurerebbero come altrettanti tentativi falliti dei virioni superstiti di perpetuare l’aggressione dando origine a discendenti, virioni distrutti senza pietà dai miei linfociti T killer.

Penso sia giusta la seconda ipotesi. Leggo sui quotidiani che molto più numerosi degli infetti sono i portatori asintomatici: ospitano il virus ma non accusano conseguenze. Molti di loro sono miei coetanei. Mi telefona un’amica e mi dice: “Io ti credo quando dici che hai avuto il virus e lo hai fatto fuori in tre ore: mio fratello ebbe l’asiatica, stette malissimo poi mai più attacchi d’influenza. E anche ora non ha nulla”.

A questo punto mi chiedo: gli asintomatici non saranno, almeno alcuni, soggetti come il sottoscritto? Da piccoli si sono fatti pure loro tutte le malattie batteriche e virali “dei bambini” (comprese quelle dovute a coronavirus come varicella, parotite e rosolia)? Capisco che, nell’attuale contingenza, ci si concentri sulle possibilità che il plasma di chi è guarito offre per donare immunoglobuline G a chi è in terapia intensiva. A che punto è, però, la ricerca dei mediatori chimici che consentono ai linfociti T killer di scovare e “agganciare” i virioni? E quella sui “proiettili” con cui li bombardano e li distruggono?

I miei coetanei ed io che, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, ci siamo fatti nell’infanzia tutte le malattie “dei bambini” abbiamo ormai un’ottantina di anni: siamo materiale prezioso su cui investigare; cosa si attende? Che siamo morti tutti, insieme ai linfociti T killer di cui, finora, siamo imbottiti?

Ai virologi, se vogliono, un approfondimento. Mi considerino a disposizione.